La meglio bomba. Di Stato.
“La ricostruzione giudiziaria non è una buona strada per capire”. Marco Tullio Giordana
Dal sito GlobalProject 2 / 4 / 2012
Nel caso di Romanzo di una strage,
ultimo lavoro di Marco Tullio Giordana, che dal primo lungometraggio
Maledetti vi amerò periodicamente si confronta col passato
remoto (vedi anche La caduta degli angeli ribelli, La
meglio gioventù, I cento passi) scindere il punto di
vista sulla ricostruzione storica dalla valutazione sulla confezione
cinematografica è particolarmente difficile. Perché lo strillo del
film recita: “Piazza Fontana - 12 dicembre 1969 ore 16,37 - la
verità esiste”. E perché sul tema della verità storica (quindi
diversa da quella giudiziaria) che dovrebbe costituire il centro
della pellicola si è scatenata una tempesta mediatica preliminare e
contestuale all'uscita del film che ha coinvolto autori,
intellettuali, storici, giornalisti, protagonisti della vicenda,
osservatori variamente e in gran numero schierati. Al primo posto
(provvisorio, ma difficilmente eguagliabile in graduatoria) Adriano
Sofri, che il 30 marzo pubblica in rete un instant book di 132
pagine, scaricabile dal sito www.43anni.it
, di confutazione al libro Il segreto di Piazza Fontana del
giornalista Paolo Cucchiarelli (Ponte alle Grazie, 2009, 700 pagine)
da cui il film risulta essere
“liberamente tratto”. Tanta
dedizione non può essere disconnessa dalla condanna assieme a
Bompressi e Pietrostefani, il vertice di Lotta Continua, a 22 anni di
reclusione per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi avvenuto
nel 1972. Al termine di un processo, conclusosi nel 1997, che
costituisce verosimilmente l'ultimo vergognoso capitolo della
stagione politico-giudiziaria segnata dalla legislazione premiale: un
unico teste coimputato che accusa e si autoaccusa, nessun riscontro,
tema di prova inesistente. Ma questo il film non ce lo dice. La
definizione giudiziaria per la strage della Banca dell'Agricoltura di
Milano passa invece per cinque istruttorie, dieci processi,
cinquecentomila documenti archiviati, una sentenza tombale, i
neofascisti Freda e Ventura riconosciuti colpevoli nel 2005 ma non
più processabili perché già precedentemente assolti in via
definitiva, i familiari delle vittime condannati a pagare le spese
processuali. Ma, dice Giordana, la verità esiste. Ed è lecito
supporre che sia lui a raccontarla.
La mia, di verità, racconta che quella
che esplose a Piazza Fontana è stata la madre di tutte le bombe.
L'autunno caldo aveva messo in evidenza un'inedita saldatura tra
lotte operaie e studentesche in un Paese uscito dal dopoguerra e
messo sotto stretta osservazione in ordine alle coordinate della sua
internità al Patto Atlantico. Eravamo in mezzo al Mediterraneo tra
la Grecia dei Colonnelli e la Spagna del dittatore Franco, in un
crocevia attraversato da Servizi segreti civili e militari (deviati è
invenzione giornalistica), Cia, Gladio, Rosa dei Venti, Mossad, Kgb,
golpisti più o meno imbranati, neofascisti irriducibili e ben
foraggiati di soldi e di armi. Di esplosivo. In agosto altre bombe
erano esplose su otto treni nella stessa notte, un'altra nello studio
del rettore dell'Università di Padova, la mia città. Nessun dubbio
che fossero bombe di destra. Poi Milano, la pista anarchica assunta
immediatamente come unica, il ferroviere Pinelli “suicidato” in
questura, la controinchiesta organizzata dalla sinistra
“extraparlamentare” che genera il volume La strage di
Stato, i cortei per chiedere verità e giustizia, ma soprattutto
per gridare guardate che noi esistiamo, siamo tanti e sempre più
incazzati, la conosciamo la verità e per voi sarà dura, sarà lotta
dura senza paura e pagherete caro pagherete tutto e tutto
l'armamentario verbale che poteva uscire dai megafoni. Le armi vere
ancora dovevano venire. Nessun dubbio allora: bomba messa assieme ad
altre quattro tra Milano e Roma (particolare non inutile) da
neofascisti per lo più veneti pilotati dai Servizi. Obbiettivo:
instaurare una strategia della tensione sotto l'ombrello degli
opposti estremismi, provocare una svolta autoritaria nel Paese,
iniziando dalla promulgazione di leggi speciali per arrivare a un
colpo di stato o comunque a una drastica riduzione dei margini di
democrazia. Nessun dubbio nemmeno oggi. Le cose stanno così. Da
tempo. Troppo tempo per scannarsi in operazioni di riesumazione,
considerato quello che sta accadendo nel presente. Per noi. Vale
allora chiedersi quale verità si porti a casa chi oggi ha vent'anni
e va a vedere il film di Giordana. Quale verità (che certo, esiste)
riesca a trasferire il regista assieme agli sceneggiatori Rulli e
Petraglia.
Allora forse è possibile tornare a
parlare di Cinema. Giordana era sul tram numero 24, a duecento metri
dalla Banca dell'Agricoltura, quando la bomba esplose. Aveva 19 anni.
Frequentava il movimento studentesco. Calabresi l'aveva conosciuto,
dice, di persona. Da molti anni voleva fare un film su questa storia.
Per arrivare a concludere il progetto ha letto quintali di pagine
scritte, vagliato numerosissime fonti di informazione. Probabilmente
ha letto un libro di troppo, quello di Cucchiarelli, connotato da
testimonianze rese da fonti che l'autore non vuole rivelare. Ma
costruisce comunque un congegno filmico ambizioso e molto complesso.
Un mosaico in cui si sforza di inserire tutte le tessere - e sono
molte - che servono a comporre l'immagine non solo di quel nebbioso
pomeriggio milanese e di cosa accadde nei giorni immediatamente
successivi, ma anche del contesto storico e politico in cui quella
strage venne concepita, eseguita, coperta. Chiama alla ribalta tutti
i nomi delle personalità che in quella vicenda furono coinvolte:
anarchici, fascisti, poliziotti, prefetti, giudici, testimoni,
politici, ministri, giornalisti, uomini dei Servizi sono il risultato
di un lavoro di casting molto puntuale. Altrettanto convincenti sono
l'operazione filologica di ricostruzione scenografica, il ritmo e la
scansione di una narrazione che riesce a evitare il rischio di
slittare nella verbosità, l'adesione degli attori tutti ai loro
personaggi. Al Romanzo del titolo. La questione sta qui: tra romanzo
e verità. Al mosaico del romanzo non manca nulla, la confezione
cinematografica è quella riferibile ad autori di grande esperienza e
solidità di mestiere, a una scrittura serrata e senza slabbrature, a
un complesso di attori in stato di grazia (a parte qualche scivolata
macchiettistica), a un cast tecnico in cui si distingue la fotografia
livida di Roberto Forza. Nel mosaico della verità manca invece
qualche tessera, e c'è qualche tessera in più.
E' comprensibile, con un po' di buona
volontà, la scelta fisiologica di porre al centro della narrazione
il rapporto tra l'anarchico quieto e saggio e il dirigente l'Ufficio
Politico rigoroso e bene educato, la specie di reciproco rispetto che
li caratterizza; molto più opinabile è quella di operare
gradualmente una sorta di santificazione di Calabresi, un'umanità
cui Mastandrea aggiunge del suo, volente o meno. Che fosse dentro o
fuori dalla stanza da cui Pinelli precipita è lui il responsabile
della sua morte. Giordana lo mette fuori seguendo una verità
giudiziaria consolidata, perdendo l'occasione per rimettere in
discussione la sentenza D'Ambrosio che conia la spiegazione del
“malore attivo”, il fermato che aspettava in anticamera mise a
verbale di non averlo mai visto uscire. Allo stesso modo assumere per
verosimile la teoria della doppia bomba lascia stupefatti. Così come
fragile è quella che vuole Calabresi protagonista di una personale
inchiesta parallela sul fronte dell'intreccio tra Servizi, eversione
nera, gerarchie militari. Di Aldo Moro ci viene rimandata una figura
fin troppo lacerata e ieratica. Di quanto giornalisti democratici e
attivisti della sinistra abbiano lavorato per smontare la pista
anarchica si vede poco. Come si vede poco Milano, poco del coraggio e
della dignità che i cittadini misero in piazza. Gli autori hanno
provato a restituire l'atmosfera di angoscia e di tensione che
gravava sull'Italia di quegli anni, a lasciar intravedere il fantasma
delle forze occulte, ma non hanno saputo o voluto dire chi ha deposto
la bomba sotto il tavolo della banca e chi ha spinto Pinelli dalla
finestra del quarto piano. Noi, dicevo, non abbiamo questo problema.
Lo spettatore ventenne forse sì. Può essere che non gli basti il
Romanzo, che la “buona strada per capire” offerta in alternativa
alla ricostruzione giudiziaria non sia affatto chiara. Si prova
disagio di fronte a una via d'uscita a interrogativi che restano
senza risposta strutturata in una sorta di finale bipartisan, sempre
tanto di moda. E' questo il problema, se ce n'è uno. Una nuova
declinazione del doppio: doppi estremismi, doppi Servizi, doppie
bombe, doppi taxi, due di tutto. Fino da quando, all'inizio, un
giornalista de L'Unità dice a Calabresi che tutte e due le
parti stanno perdendo il controllo. Tutte e due. Una stagione di
lotte spezzata dai poteri occulti intrecciati tra le due sponde
dell'Atlantico, una spinta di rinnovamento paralizzata sul nascere?
Non è stato così, non c'è stata nessuna paralisi, i processi di
rinnovamento non si sono arrestati. Il Potere è uno solo, ieri come
oggi, anche se si ridefinisce continuamente nella sua composizione e
le lotte vivono di cicli che non si riproducono mai in forma uguale.
Di questo film tra qualche settimana non si parlerà più, anche se
ci si può aspettare che qualcun altro possa trarre profitto
commerciale da quel passato. Del Potere che si sta appropriando del
futuro dei giovani spettatori, invece, si parlerà ancora.